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Pier Paolo Pasolini: il genio scomodo

Quattro anni prima della sua morte, Pier Paolo Pasolini prese parte a una popolare trasmissione televisiva, III B: facciamo l’appello, condotta dall’indimenticabile giornalista d’eccellenza Enzo Biagi. Finché Pasolini è stato in vita la puntata in cui partecipò non vide mai la luce.

Cosa c’era da aspettarsi d'altronde da un uomo così complesso e provocatorio, a conversare con un giornalista così corretto e trasparente: censura, la solita tremenda censura. Un rifiuto di inclusione che l’autore Pasolini ha subito fino alla fine dei suoi fin troppo brevi giorni sulla terra.

Quale fu la colpa di tale esclusione? Aver attraversato il medium di massa con l’arma della verità, con il rigetto della finzione, con l’impossibilità di presentarsi e raccontarsi in maniera costruita. L’autenticità di Pier Paolo Pasolini risultava cocente, impossibile da piegare ai meccanismi televisivi che già nel 1971 governavano l’intrattenimento generalista.


Quello di Pasolini non fu un vizio di presunzione e neppure un atteggiamento di superiorità rispetto al popolare, semmai l’assoluto opposto. Avvertire di sentirsi in una posizione di privilegio lo atterriva, essere consapevole di porsi su di un piedistallo rispetto a chi da casa avrebbe udito le sue parole lo infastidiva enormemente.

Pasolini, nonostante la sua immensa conoscenza e il suo innegabile talento geniale, desiderava avere un rapporto pari col pubblico, con le persone semplici, che valutava essere le migliori facenti parte della nostra società.

Su quel pulpito Pasolini non voleva proprio starci, sapere di essere compartecipe a una messa in scena traditrice del vero era tutto ciò che più distante poteva esistere dal senso del suo agire.


Io penso che in certi casi sia un rapporto alla pari, che lo spettatore che è davanti allo schermo riviva, attraverso le vostre vicende, anche qualcosa di suo, non è in uno stato di inferiorità. Perché non può essere alla pari?


Teoricamente sì. Alcuni spettatori che culturalmente per privilegio sociale ci sono alla pari, prendono queste parole e le fanno loro, ma in genere le parole che cadono dal video cadono sempre dall’alto, anche le più democratiche, anche le più vere, le più sincere…Io non parlo di noi in questo momento alla televisione, parlo della tv in sé come mezzo di comunicazione di massa. Ammettiamo che questa sera ci sia con noi anche una persona umile, un analfabeta, interrogato dall’intervistatore. La cosa vista dal video acquista sempre un’aria autoritaria, fatalmente, perché viene data come da una cattedra. Il parlare dal video è parlare sempre ex cattedra, anche quando questo è mascherato da democraticità.

Per Pasolini l’azione d’arte era indissolubilmente legata a quella politica, alla presa di posizione sociale e intimamente vissuta. In questo risiede tutt’ora l’assoluta unicità di Pier Paolo Pasolini. Non è mistero, né cautela nello svelarsi, è pura e semplice riservatezza e fusione completa tra uomo e artista.

Risulta impossibile dunque scindere le due dimensioni, che viaggiano coerenti e parallele, e prenderne in considerazione una senza analizzare un’altra significherebbe dipingere un quadro tagliato a metà, incompleto e parziale, solamente osservando entrambe si può essere capaci di rendere giustizia a una delle più grandi menti esistite nella storia italiana.


Pasolini: le origini, la formazione della cifra stilistica, la maturità


Pier Paolo Pasolini nasce figlio di un ufficiale di fanteria e di una maestra, per la maggioranza della sua gioventù si muoverà dalla città natale Bologna a Parma, poi Conegliano, Belluno, da Casarsa della Delizia in Friuli a Sacile, da Cremona a Scandiano, fino a Reggio Emilia dove frequenta il ginnasio. Questi continui spostamenti certamente arricchiscono Pier Paolo, offrendogli scorci d’Italia assai differenti tra loro. Allo stesso tempo il costante mutare delle proprie radici, con l’aggiunta dei problemi di gioco del padre, destabilizzano Pasolini, sballottato da un luogo a un altro senza possibilità di scelta.

Nel frattempo Pier Paolo comincia a mostrare una grande passione per il calcio e per la lettura con particolare interesse per Shakespeare e i grandi russi Tolstoj e Dostoevskij.





Data la sua precoce fame di sapere Pier Paolo riesce a saltare un anno di scuola e si iscrive all’università, precisamente alla facoltà di Lettere, direttamente a diciassette anni e laureandosi dopo pochi anni con lode. All’università scoprirà il suo amore per la filologia romanza e per l’estetica dell’arte.

Nel 1942 pubblica a sue spese Poesie a Casarsa, un libretto di poesie in friulano, e collabora con la rivista Il Setaccio per la GIL (Gioventù Italiana del Littorio) di Bologna. La sua composizione poetica accresce nello stile e Pasolini inizia a scrivere anche in italiano.


Nel contempo la guerra irrompe e Pier Paolo è costretto a sfollare a Casarsa, il paese materno. Andrà sotto le armi nel settembre del 1943 per poi fuggire e rifugiarsi in Friuli pochi giorni dopo. Non è storicamente esatto sostenere che Pasolini non fu un partigiano. Certamente non lo fu armato come il fratello ma lo fu in modo ideologico, collaborando concretamente scrivendo per riviste resistenti e tenendosi quanto più possibile a disposizione della Resistenza stessa. La morte del fratello partigiano Guido lo colpirà profondamente, ma per lo più ciò che lo ferirà maggiormente sarà il dolore che sua madre porterà sempre con ostinata mancanza di rassegnazione.

La figura materna rappresenterà per Pasolini un perno centrale della sua esistenza.

La sua bontà contadina incarna per Pier Paolo tutto ciò che di significativo resta al mondo: dalla sua concezione religiosa che lui definisce rurale, spontanea e non confessionale, al suo essere poeticamente contadina, amante della verità e del coraggio.

Tutto ciò si oppone alla figura del padre, che sosteneva gli facesse pena perché «aveva sbagliato tutto». Dalla parte sbagliata della storia, morirà colonnello, nazionalista, filofascista, seguace di un cattolicesimo della domenica, liturgico e svuotato da ogni senso, una formalità da spettacolo borghese.


Il rapporto con la religione è un punto fondamentale nell’opera di Pasolini: il suo sguardo non è logico, laico, distaccato dalle cose del mondo.


È invece colmo di pietà, religioso a modo suo, in quanto considera gli avvenimenti in qualche modo miracolosi. Abbandona la Chiesa a quattordici anni e non considera il Vangelo un’opera consolatoria ma una grande creazione del pensiero umano.

Il termine consolazione per Pasolini suona come speranza che egli considera un bieco alibi. Non si ciba più delle prospettive future cavalcate da grandi ideologie, sceglie di accettare la vita per ciò che è quando accade. Speranza suona come mancanza di responsabilità personale, d’azione, delegare ad altri le nostre sorti e ritenere poi essi responsabili degli esiti non desiderati. Pier Paolo vuole esprimere la realtà che conosce e che vede attorno a sé con tutte le contraddizioni del caso.


Proprio per questo motivo lo stile pasoliniano diverge da quello neorealista che idealizza gli ultimi e i semplici, mentre lui cerca di raccontare la sua cara e amata gente semplice con estrema vividezza e brutalità quando necessario, perché la conosce, è parte di essa e perciò può mostrare un punto di vista limpido e oggettivo.

Dopo il suo lavoro da maestro in Friuli, nel 1950 si trasferisce a Roma per intraprendere la sua carriera artistica a tutto tondo.


Allora inizia a scrivere il suo vero e proprio romanzo, Ragazzi di Vita.


Uscirà cinque anni dopo il suo arrivo in terra laziale e il suo incontro con personaggi pittoreschi che popoleranno in seguito il suo immaginario, come l’allora imbianchino Sergio Citti e il poeta Sandro Penna con cui fece tante lunghe passeggiate sul lungotevere, imparando il gergo romanesco.

Il tema scabroso che il libro tratta, ovvero la prostituzione maschile omosessuale, causò a Pasolini accuse di oscenità e pornografia. Grazie all’intervento di letterati del calibro di Giuseppe Ungaretti e Carlo Bo, critico cattolico, viene assolto con formula piena.

Seguono una raccolta di poemetti nel 1957 intitolato Le ceneri di Gramsci e nel 1959 Una Vita Violenta che come il precedente Ragazzi di Strada viene malvisto dall’opinione pubblica conservatrice e cattolica, ma ottiene il plauso di colleghi come Bassani, Gadda, Moravia.


Intanto il cammino artistico di Pasolini si biforca su due binari: le lettere e il cinema.

Dopo aver collaborato per lo più per ragioni di mancanza di denaro alla stesura di molteplici sceneggiature, tra cui il celeberrimo Le notti di Cabiria di Federico Fellini, nel 1961 esordisce con il suo primo lungometraggio, Accattone. Il film non ottiene l’approvazione della censura per essere distribuito nelle sale ma verrà presentato al festival di Venezia con l’apprezzamento di tanti colleghi cineasti come il maestro della celluloide Carné. Il film è stato il primo nella storia italiana a ottenere il divieto ai minori di diciotto anni.

È possibile considerarlo come una trasposizione cinematografica dei suoi precedenti lavori letterari, in cui la vita delle borgate romane e l’adolescenza e la crescita difficile dei ragazzi che ci vivono trionfano come temi centrali.


Nel capodanno dello stesso anno partirà per l’India con Alberto Moravia ed Elsa Morante preparando gli articoli per Il Giorno che confluiranno poi nel volume L’odore dell’India.

L’anno successivo realizzerà due progetti incredibili: la regia di Mamma Roma con Anna Magnani e la pubblicazione del Sogno di una cosa, romanzo del periodo friulano.

Nello stesso anno accetta di realizzare un film a più mani, Ro.Go.Pa.G, insieme a Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard e Ugo Gregoretti. Il segmento che realizza è indubbiamente uno dei più significativi contributi mai creati nel cinema italiano di tutti i tempi. Nel progetto riesce a coinvolgere anche il colosso del cinema mondiale Orson Welles, che non solo parla italiano sebbene poi doppiato, ma incarna perfettamente la critica al ruolo stesso di regista e tira un fendente micidiale al cosiddetto uomo medio, l'espressione più vivida della nostra borghesia, definita qui «la più ignorante d’Europa». Il film uscito al cinema il primo marzo del 1963 verrà sequestrato il giorno stesso con l’accusa di Vilipendio alla religione di Stato. Il processo conseguente vide Pasolini colpevole dei reati ascrittigli condannandolo a quattro mesi di reclusione e confiscando il film fino alla fine dell’anno.


Come scriverà Alberto Moravia su l'Espresso:

L'accusa era quella di vilipendio alla religione. Molto più giusto sarebbe stato incolpare il regista di aver vilipeso i valori della piccola e media borghesia italiana.

Sempre nel 1963 Pasolini realizzerà una docu-inchiesta sui costumi intimi italiani intitolata Comizi d’amore. Mentre nel 1964 pubblica il quarto volume di Poesie in forma di rosa, inizia le riprese de Il Vangelo secondo Matteo che verrà presentato a Venezia con una critica del tutto favorevole e un ottimo successo di pubblico.

Nell’anno successivo arriverà Uccellacci e Uccellini con Totò e Ninetto Davoli, film che tratta della crisi del Partito Comunista e del marxismo in senso lato, in chiave tragicomica, con la colonna sonora cantata da Domenico Modugno. Da qui l’elemento surreale alla Buñuel farà parte della sua cifra stilistica. La pellicola ebbe gran successo anche grazie alla presentazione di Roberto Rossellini al festival di Cannes.

Di ritorno da un’avventura in Nord Africa, a cavallo del 1966/1967 diresse l'episodio Che cosa sono le nuvole? del film Capriccio all’italiana, dove ritrova Totò, Ninetto Davoli, Domenico Modugno e il duo comico di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.


Il 1968 vide Pasolini al contempo attraversato da due eventi capovolgenti: il romanzo Teorema poi trasformato in film creerà una contestazione diffusa a Venezia, con Pier Paolo, Masetti e Zavattini in prima linea e Jean Renoir a lodare il lavoro di Pasolini. Il film venne prontamente sequestrato dalle autorità per oscenità. Secondariamente Pasolini scriverà l’indimenticabile invettiva contro i giovani ribelli sessantottini su l’Espresso, causando un grandissimo tumulto.


Ho passato la vita a odiare i vecchi borghesi moralisti, e adesso, precocemente devo odiare anche i loro figli... La borghesia si schiera sulle barricate contro sé stessa, i "figli di papà" si rivoltano contro i "papà". La meta degli studenti non è più la Rivoluzione ma la guerra civile. Sono dei borghesi rimasti tali e quali come i loro padri, hanno un senso legalitario della vita, sono profondamente conformisti. Per noi nati con l'idea della Rivoluzione sarebbe dignitoso rimanere attaccati a questo ideale.

Tra il 1968 e il 1969 Pasolini realizzerà Porcile che considerò il suo film più riuscito e in seguito Medea con Maria Callas, di cui diventò amico fraterno.

Il 1970 lo vedrà impegnato nel compimento della Trilogia della vita, dopo aver scritto la sceneggiatura tratta da diverse novelle, dapprima Il Decameron al quale seguiranno I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte, che diventarono il vero grande successo popolare di Pier Paolo. (I Racconti di Canterbury vinse l’Orso d’oro al festival di Berlino ma in Italia venne anch’esso sequestrato, Il fiore delle Mille e una notte uscito nel 1974 vinse il Grand Prix Spécial du Jury al festival di Cannes con il medesimo successo di pubblico). Le sceneggiature dei tre film vennero pubblicate in forma di libro successivamente nel 1975.


Mentre scriveva Petrolio, scrittura che pensava avrebbe portato avanti tutta la vita, che purtroppo vedrà la luce solo postumo nel 1992, si dedica alla sua ultima opera cinematografica, Salò o le centoventi giornate di Sodoma, uno dei lavori più discussi tuttora del grande autore.


Purtroppo verrà presentato tre settimane dopo la sua morte. In questa complessa esegesi del male assoluto kantiano, dello spazio dei corpi nudi, unico rifugio dalla mercificazione del consumismo, che tutto corrode e corrompe, Pasolini porta all’estremo la sua estetica e il suo intento narrativo.


Pasolini era un uomo e un artista scomodo, incompreso, che per scelta non si appoggiò né a partiti né a parrocchie. Nei brevi 53 anni della sua esistenza su questo pianeta Pier Paolo ricevette 24 denunce e/o querele. La sua critica alla società italiana era trasversale, tagliente, senza paracadute. Aveva adottato uno speciale metodo misericordioso per graziare e giustiziare l’umanità al tempo stesso: la Sprezzatura rinascimentale, «che nasconda l’arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi…». Un elemento di imperfezione e perdono applicato alla sua umanità variegata, sempre vera, sempre dura ma allo stesso tempo sempre miracolosa. Qualsiasi fango gli fu gettato addosso non sporcò mai Pasolini ma bensì chi glielo tirò contro. Integro nacque e integrò morì.


L’unico gesto che noi contemporanei possiamo fare è abbassare il capo, riconoscere il suo valore e cercare di apprendere il più possibile da questo inimitabile genio.


La sua fine è stata al tempo stesso simile alla sua opera e dissimile da lui. Simile perché egli ne aveva già descritto, nella sua opera, le modalità squallide e atroci, dissimile perché egli non era uno dei suoi personaggi, bensì una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un'epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile.                                                                                                Alberto Moravia



Fonti che hanno supportato la stesura dell'articolo


Enzo Biagi, III B: facciamo l’appello, RAI, 1971

Alberto Moravia, L'uomo medio sotto il bisturi, l'Espresso, 3 marzo 1963

Definizione di sprezzatura, Baldassarre Castiglione Il Cortegiano, 1513-1524, pubblicato nel 1528

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