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The Brutalist o la bellezza di una narrazione in chiaroscuro

  • Immagine del redattore: Mìcol Cavuoto Mei
    Mìcol Cavuoto Mei
  • 18 mar
  • Tempo di lettura: 5 min

Quando si avvicina la cerimonia degli Oscar cerco di recuperare tutti i film nominati

nelle diverse categorie che non ho ancora visto. Se The Substance mi aveva già

piacevolmente convinta e A Real Pin di Jesse Eisenberg è risultato essere un ritratto

magnifico e sincero del rapporto tra fratelli, mi mancava il piatto più importante da

assaggiare per poter spendere nello scegliere il migliore attore protagonista.

Essenzialmente tra il sempre eccellente Ralph Fiennes e l’ottimo Conclave, e quel

mostro di bravura che è Adrien Brody in The Brutalist.


Mi risulta davvero difficile poter scrivere in modo semplice di un capolavoro strutturato

su più livelli, metafora stessa di un film che parla di architettura brutalista, e si fonde con

i vari materiali che prendono un significato qui simbolico e potente.


The Brutalist è la storia di un uomo. László Tóth, architetto ungherese di talento

d’avanguardia Bauhaus, che si trasferisce negli Stati Uniti nel 1947 per vivere una

nuova vita, libera e creativa e possibilmente ricca di opportunità.


Già dalle prime scene del film, la Statua della Libertà, ci viene mostrata sempre di

sbieco, al contrario, di profilo o sullo sfondo. Questa scelta registica sottolinea come il

‘sogno americano’ il cui simbolo è la statua, risulti subito distorto, inarrivabile, in qualche

modo sintomo di una falsa promessa.


László, Adrien Brody, si troverà infatti ingabbiato in un sistema che sembra truccato a

suo sfavore, in cui la sua identità di ebreo sopravvissuto alla prigionia in un campo di

sterminio, il suo forte accento ungherese e i suoi modi eclettici vengono respinti da un

America del nord assimilata ai valori cristiani tradizionali.


Senza entrare eccessivamente nei dettagli dei molteplici avvenimenti che compongono

trama, con lo scopo di invogliare chi legge a imbarcarsi in questa storia epica tripartita,

László verrà deriso, umiliato, sbeffeggiato e il suo lavoro non verrà capito per lo più,

finché un ricco industriale statunitense, inizialmente esplicitamente razzista e

respingente, largamente xenofobo e classista, non si renderà conto del suo talento e gli

offrirà un progetto di costruzione in onore della madre passata a miglior vita.


Il progetto di László è magnifico, pienamente in stile brutalista, simboleggia speranza e

sofferenza subita per ottenere una forma di catarsi, e il protagonista si immerge

totalmente nella creazione ambiziosa, nonostante le ritrosie dei colleghi americani.Gli anni passano e lo raggiungono finalmente dall’Europa la moglie Erzsébet, Felicity

Jones, sempre intensa e sottile nelle sue interpretazioni, e la nipote restata orfana,

Zsófia. László scopre solo arrivando alla stazione in trepidante attesa con un mazzo di

fiori stretto tra le mani che la moglie, a causa della carestia e conseguente grave

denutrizione subita in guerra, soffre di una grave forma di osteoporosi che la costringe

sulla sedia a rotelle, oltre che causare fortissimi attacchi di dolore acuto. Zsófia conosce

l’inglese ma è restata muta per i traumi subiti quando era stata costretta in un campo di

concentramento.


La costruzione è talmente ambiziosa da finire per costare molto di più del budget

inizialmente previsto, e László si impegnerà a investire il suo cachet per intero affinché

la sua idea iniziale possa essere realizzata come era stata pensata in toto.


Nonostante il suo ruolo ora venga riconosciuto così come la sua esperienza e genialità,

gli viene costantemente ricordato che egli è per lo più tollerato, sopportato, percepito

come un parassita totalmente fuori posto e contesto, una sanguisuga con cui tutti in

cantiere e non solo, faticano ad avere a che fare.


Questa situazione porterà László, Erzsébet e Zsófia, molestata e infastidita dalla

arrogante e crudele figlio del magnate, interpretato da un solidissimo Joe Alwyn, a

trasferirsi a New York, dove Erzsébet impiegherà la sua laurea in giornalismo per

seguire una piccola rubrica di consigli femminili, sentendosi sminuita e ridotta a valutare

smalti per unghie per poter mantenere la famiglia dato che László ora lavora come

progettista per uno studio di architettura.


Zsófia, ora capace di parlare di nuovo, sposata di fresco e incinta, ad una cena,

comunica a László e Erzsébet la sua intenzione di fare Aliyah, ovvero trasferirsi nel

neonato stato di Israele, per rassicurare se stessa e suo marito sul futuro della famiglia

che intendono creare, lontana dall’antisemitismo che li ha perseguitati tutta la vita.

Sia László che Erzsébet restano colpiti da questa decisione radicale e temono per la

distanza che li separerà dalla giovane coppia ma accettano di buon grado la loro

decisione.


Tempo dopo László e il magnate finanziatore del progetto, Harrison, Guy Pearce, si

recano a Carrara per scegliere il marmo con cui finire lo straordinario progetto di László,

in calcestruzzo, per l’orrore e il rifiuto di tutti i colleghi architetti, anziché in materiali più

pregiati, per rimembrare il passato dei campi di sterminio e consacrare l’architettura

brutalista nella sua forma più pura.


Durante questa visita, emergerà la dipendenza di László dall’eroina, nata quando il suo

avvento negli Stati Uniti è stato osteggiato e reso un incubo ad occhi aperti. In uno stato

di semincoscienza Harrison coglierà László e lo stuprerà, umiliandolo nel modo più

disgustoso e maligno immaginabile.


Con il sostegno di Erzsébet, in via di guarigione, si riprende da un lungo periodo di

depressione in cui non fa altro che lavorare al progetto del centro ricreativo, e decidono

entrambi al termine di trasferirsi a Gerusalemme per congiungersi con la nipote Zsófia.

Prima di andarsene però Erzsébet, troverà il coraggio di affrontare Harrison e la sua

famiglia ipocrita e antisemita, denunciando la violenza subita dal marito.


L'epilogo della storia ci catapulta nel 1980, alla prima mostra internazionale

dell’Architettura di Venezia, in cui un anziano e vedovo László viene portato in gloria

dalla nipote a una retrospettiva delle sue opere, compreso il centro commissionato da

Harrison, completato decenni prima. La nipote ora adulta esalta la catarsi compiuta da

László e Erzsébet, mettendo l’accento su come le sue creazioni simboleggino la

separazione e l’orrore subito nei campi di sterminio nazista, una tragedia trasformata in

luogo, appartenenza e bellezza.


Questa pellicola è immediatamente indimenticabile e diventerà una pietra miliare nella

storia del cinema, per l’elegantissima lentezza con cui viene narrata, mai pietista né

strappalacrime ma sempre incisiva e sincera fino al midollo.

L’interpretazione di Adrien Brody è capace di una intensità e credibilità commovente, la

fotografia asciutta, splendidamente instabile a tratti, è capace di restituire sempre il

misto tra eccitazione e umiliazione che pervadono il percorso di László.


L’identità ebraica non riesce a trovare posto né a trovare pace, per alcuni va nascosta e

per altri è causa di persecuzione, anche nella democratica America post conflitto

mondiale.

In una scena toccante, Adrien Brody, in auto con Felicity Jones, dirà che sono trattati

non come se fossero niente ma peggio che niente.


In un momento storico in cui con superficialità viene confusa l’identità spirituale e

culturale di un individuo dalle azioni arbitrarie di uno stato e non si comprende la

differenza tra appartenenza e rappresentanza, questo film ci ricorda quanto

l’antisemitismo sia vivo e prosperi nell’ignoranza e nelle facili e ignoranti prese di

posizioni da leoni da tastiera.


The Brutalist è un capolavoro necessario e importante, proprio adesso, e Adrien Brody

ha levato ogni dubbio su a chi dovesse andare quella statuetta quest’anno.

 
 
 

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