135 minuti. Chiunque abbia sperimentato la teoria della relatività nella vita quotidiana conosce il significato di quanto il tempo, nell’esperienza quotidiana, possa risultare assolutamente relativo. Quando incontriamo un amico che non vedevamo da tempo ci sembra di esserci visti solo ieri, eppure, inesorabili le lancette dell’orologio sembrano scherzarci, riducendo quella cena a una manciata di minuti. Succede così quando ci si diverte e ci si riconcilia con qualcosa di bello e piacevole.
135 minuti perciò possono risultare pochi, tanti o esageratamente troppi. Diamanti di Ferzan Ozpetek, quindicesima pellicola dell’autore attualmente nelle sale italiane, mi è parso un anno e mezzo della mia vita che correva via, e sono uscita da quella sala un po’ intontita e disorientata, come immagino si sentano coloro che si risvegliano dopo un lungo coma. Beati loro, però, che sono liberi di fare viaggiare la loro testa dove gli pare, mentre ciò che ho vissuto io ricorda di più il processo di redenzione di Alex DeLarge in Arancia Meccanica, il trattamento Lodovico, in cui gli viene impedito di chiudere gli occhi mentre film su film vengono sottoposti alla sua psiche disturbata con lo scopo di renderlo un docile membro della società, sopprimendo ogni pensiero critico o emozione negativa che egli possa sentire.
C’è ovviamente della grande ironia nelle mie parole, ma non così tanta.
Fa male, malissimo, al cuore vedere un cast di attrici di prim’ordine sprecato così, vedere costumi sontuosi che rappresentano la gloria della storia del nostro cinema buttati lì a casaccio senza un perché né un come.
Fa male, malissimo, sentire un mansplaining di 135 minuti su cosa sarebbe il mondo delle donne con la pretesa egotistica di poterlo comprendere e spiegare essendo uomini privilegiati di mezza età.
Ciò che spero sia accaduto nella realtà dei fatti, sta nell’inizio del film, Ozpetek invita a cena nella sua stupenda casa romana le attrici con cui ha lavorato meglio, Mara Venier, figura emblematica della maternità ridanciana e non problematica perchè butta tutto in caciara e strappa sempre un sorriso, prepara una sontuosa cena e Ferzan, o meglio al suo Ego smisurato che è il vero protagonista del film, propone alle povere malcapitate dei copioncini, per fare una pellicola che 'omaggia le donne’.
A un tratto ci troviamo catapultati in una puntata estremamente lunga di una soap-opera da pomeriggio televisivo, in cui ogni personaggio, troppi personaggi, sono mal scritti, perché recitano delle macchiette e degli stereotipi viventi su tipicità femminili. Come se Ozpetek avesse seguito un meccanismo lombrosiano per rinchiudere tutto il femminile in quattro o cinque banalità che tendono a un melò falsato, finto, colpevole di essere finto, pretenzioso e visto sotto la lente di un uomo che ha fatto poca indagine prima di addentrarsi in qualcosa di così vasto, complesso e contraddittorio.
Le stupende attrici che impiega si ritrovano a interpretare le macchiette della donna sola con un bambino piccolo da crescere, la madre che ha perso una figlia e non riesce a superarlo, la donna lasciata a Parigi dall’amore della sua vita che la lasciò ad attenderlo alla stazione, giuro che non scherzo se vi dico che alla risoluzione della scenetta mi è venuta voglia di urlare per quanto stucchevole e derivativo da pellicole ben riuscite come Un amore splendido con Deborah Kerr e Cary Grant, sia plagiata la sdolcinata conclusione.
C’è la donna che viene picchiata dal marito che poi forse o sicuramente l’uccide, senza che questi eventi o sviluppi nella trama siano in alcun modo spiegati né vi sia un percorso di crescita nei personaggi che giustifichi i cambiamenti che conseguono.
Geppi Cucciari è vincolata da un personaggetto che dovrebbe incarnare la donna post 68, libera che vive con amiche e seduce in modo disinibito ogni bel garzone che capita nell’atelier in cui tutte queste sarte lavorano.
Sembra che per Ozpetek la solidarietà femminile e l’amicizia tra colleghe sia tinta di un cinismo escludente nei confronti dell’universo maschile, sempre percepito in opposizione e come negativo, inferiore, o al meglio, come nella storiella a cui è costretta la stupenda Luisa Ranieri, dei poveracci che fanno sacrifici e allora si redimono perchè si immolano per il bene altrui e allora assomigliano alle donne.
Ogni uomo che passa per l’atelier viene riempito di epiteti inappropriati che forse facevano ridere nel 1974, anno in cui è ambientato il film, ma ad oggi risultano pesanti, questa continua oggettivazione del corpo maschile, la sessualizzazione e la derisione di poveracci che lavorano come loro esprimono un disprezzo e un cameratismo bullo e lesivo della loro dignità, come se gli uomini fossero una categoria altra, un universo di cui non ci interessa indagare ulteriormente, perchè sono solo bellimbusti, mariti, ex fidanzati o uomini da fatica.
Invece di dimostrarsi migliori, memore di secoli di assoggettamento e subalternità nella società, queste donne non si dimostrano in alcun modo migliori degli uomini che sbeffeggiano. Si pongono nei loro confronti con la stessa superficialità e mancanza di rispetto quanto il contrario è sempre accaduto nella storia del mondo. La vittima replica il carnefice senza soluzione di compromesso, in una misandria che pare ridicola ed estremizzata. L’unico uomo a cui è riservata un po’ di pietà è il figlio gravemente depresso di Paola Minaccioni, interprete sensibile ed eccellente in qualsiasi cosa le venga affidato, ma anche qui lui ci piace perché è fragile, debole, come una donna.
Non siamo di fronte a una commedia dell’arte goldoniana in cui i personaggi sono appena accennati perché vanno a canovaccio, qui non esiste proprio una storia da raccontare, e allora giù di attrici di teatro e di cinema che si accapigliano perché una è bella e giovane e l’altra passatella, un delitto sprecare così il talento di Carla Signoris e Kasia Smutniak, e in seguito visto che siamo in un film che deve a tutti costi omaggiare le donne, le due fanno inspiegabilmente pace, anche qui senza nessuna risoluzione logica del perché accada.
Ogni singolo evento del film ci viene spiegato in modo didascalico, come se fossimo un po’ scemi, e non avessimo mica capito che la tensione tra le meravigliose Jasmine Trinca e Luisa Ranieri possa derivare da un trauma non accettato, e allora va gridato, per strappare lacrime facili al pubblico che ha già subito due round di Patty Pravo e Mina, giusto per copiare Pedro Almodovar e stereotipare con caratteri ancora più ovvi la tela generale.
Ciò in cui è stato grande Pedro Almodovar è stato il saper raccontare un momento storico fondamentale per la storia spagnola contemporanea, la Madrid libera post franchismo, la sua movida e la tavolozza infinita delle sue sfumature. Almodovar, che piaccia o meno, ha sempre avuto uno stile inconfondibile e sebbene sia spesso sceso nel melò più tragico, ha sempre mantenuto una dignità e originalità che meritano rispetto e considerazione.
Qui esiste solo un ego gigantesco, elefantiaco, che traghetta il film verso un finale incomprensibile e totalmente fuori posto, con la pretesa di raccontarci che cosa significa fare cinema.
Fare cinema non è scegliere dei tipi psicologici e guidarli verso risoluzioni dei conflitti ovvie e telefonatissime, dialoghi mal scritti e una sceneggiatura inesistente, si sente la mancanza incolmabile del collaboratore storico di Ozpetek, il bravissimo Gianni Romoli, con cui ha firmato le sue pellicole più riuscite.
In conclusione, io da donna, modestamente, non mi sono sentita lontanamente capita né rappresentata da questa accozzaglia di scontatezza, prevedibilità, cliché e luoghi comuni. Mi sento offesa, in quanto cinefila e in quanto donna, che la mia storia e la storia di tutte noi sia ridotta a un abbozzo di quasi personaggi mal scritti e che tutto ciò riecheggiasse soltanto nell’infinito eco di un uomo che decide di parlare di donne.
Se non fosse per la straordinaria e qualitativamente altissima caratura delle interpreti presenti e la bravura dei costumisti, sarebbe solo pellicola sprecata.
Meno male che siamo nel 2025 e tutto viene girato in digitale.
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