L’acclamata serie tv prodotta da Netflix, Squid Game, 오징어 게임, ha traghettato un inaspettato grande pubblico internazionale verso un fenomeno di costume e di esotismo, per molti il primo approccio a una narrazione sudcoreana, popolare ormai internazionalmente almeno dal 2010, con il nome di Hallyu.
I media si sono interessati a sottolineare dall’uscita della prima stagione, ormai tre anni fa, tutti gli aspetti più ludici, spettacolari e inusuali, tralasciando però un’intera chiave di lettura squisitamente sudcoreana.
Ogni opera d'arte può essere fruita e goduta a livelli diversi perciò è giusto entusiasmarsi per le pittoresche scenografie e il letale confronto tra l’idea di giocare come dei bambini e ricevere in cambio di un errore una fucilazione sul posto. Questo contrasto crudele nasconde però un’analisi molto più amara e necessaria, non solo sulla società sudcoreana contemporanea, ma su come Squid Game sia sempre più una mimesi estremizzata del crollo delle grandi democrazie occidentali.
Quanti livelli di analisi esistono dunque in questa storia meravigliosamente scritta, diretta ed interpretata? Per semplificare, possiamo incontrarne due, eviscerato l’istantaneo più superficiale approccio acritico già menzionato che non merita ulteriore approfondimento.
Il primo, quasi del tutto non percepito dal pubblico internazionale anche per colpa di sottotitoli deludenti e poi modificati in corsa, racconta la Sud Corea contemporanea. Un paese che ha subito una accelerazione economica smodata negli ultimi anni, e ha vissuto un vero e proprio boom economico paragonabile all’Italia degli anni 50/60.
Un periodo storico in cui la pressione e la spinta per collocarsi a un livello di benessere superiore ha finito col rendere possibile che la classe media precipitasse in un inferno di cambiali, debiti, turbinii di strozzini e prestasoldi malintenzionati, pronti a distruggere il nuovo sogno, o meglio illusione, collettiva di ricchezza.
Ci sono sempre le scommesse legali o meno e si sono aggiunte nuove minacce contemporanee come l’investimento nelle instabili criptovalute, la borsa che si ritrova sempre più ondeggiante, ma il famigerato passo più lungo della gamba in un paese che si vede forte, rilevante e foriero di possibilità è una trappola inarrestabile.
Specialmente per una società, quella sudcoreana, similarmente a quella statunitense, che fa affidamento quasi esclusivamente a un servizio sanitario privatizzato, in cui il successo negli studi e nella carriera lavorativa definiscono non solo l’individuo ma il suo intero cerchio affettivo, in cui sbagliare o fallire viene percepito come una tragedia senza rimedio, una condanna senza appello.
Questo primo livello di analisi riguarda tutti gli innuendo alla vecchia Corea precedente al boom economico, quella fatta di giochi svolti in piccoli parchi finchè le mamme non richiamavano i bambini a casa, quella dei semplici quartieri costruiti da modeste case e umili aspirazioni.
Questo effetto profondamente nostalgico che viene rappresentato in Squid Game, il ritorno brutale in un passato più semplice, meno competitivo, colpisce lo spettatore sudcoreano come non può fare con noi, dotati di un punto di vista occidentale.
I giochi che vengono scelti in entrambe le stagioni sono profondamente legati alla storia delle radici sudcoreane pre industrializzazione massiccia, la bambola dagli occhi dotati di sensori di movimento che inaugura il primo gioco di ‘un, due, tre stella’, ricorda la bambina che compariva sui testi scolastici sudcoreani, creando un senso di terrificante spaesamento per i partecipanti che se la trovano davanti.
Una buona similitudine sarebbe immaginare un gioco simile organizzato in Italia con un Topo Gigio gigante che segnala chi si muove e deve essere ucciso sul posto.
Hwang Dong-hyuk, autore della serie, ci comunica che quel passato è perduto e farne affidamento per guidarci nell’oggi è ingenuo e controproduttivo.
Allo stesso tempo ci tiene a sottolineare come i rapporti gerarchici siano shiftati, per cui nella prima stagione il giocatore 001, il più anziano e vulnerabile e dunque secondo l’etica sudcoreana meritevole di rispetto e cura, viene totalmente ignorato, venendo meno a consuetudini millenarie. (Nella scena finale dell’ultimo episodio della prima stagione vedremo un emblema della rottura di questa tradizione, quando il protagonista 456 serve dell’acqua al giocatore 001 con una mano sola, gesto incredibilmente irrispettoso e insultante da fare nei confronti di una persona più grande.)
Tutti questi piccoli ma fondamentali dettagli sfuggono a noi occidentali che dunque ci focalizziamo sulla violenza gratuita, sulle strategie di gioco, senza dare molto peso ai rapporti tra i personaggi né percepire il simbolismo culturale e politico.
Come nel caso della giocatrice 067, esule nordcoreana, presenza imprescindibile del grande rimosso storico sudcoreano, che alterna una parlata di Seoul a un accento originario che condivide col fratellino riuscito a sfuggire dalle grinfie delle frontiere impossibili da valicare.
Oppure con il giocatore 199, Alì, che dal Pakistan fugge in Corea del sud per poter regalare a moglie e figlio piccolo un avvenire migliore, mentre viene sfruttato, deriso e trattato come spazzatura. Ali, vedendo nel personaggio del giocatore 218 un protagonista distinto e colto della società, gli si rivolge come "sajangnim”, come se si stesse rivolgendo al suo capo. In un momento struggente proprio il giocatore 218 lo incoraggia a rivolgersi a lui come "hyung", fratello maggiore, un termine che presuppone un legame affettivo e di fiducia, che poi verrà crudelmente tradita.
Al netto di una lettura un filo più culturalmente e semioticamente sudcoreana della serie, ci resta una seconda analisi che riguarda principalmente la seconda stagione di Squid Game, la visione politica e sociologica. In seguito ai primi episodi della stagione, dei veri e propri capolavori di maestria attoriale messa in scena da Gong Yoo, già straordinario protagonista di Train to Busan, il reclutatore, uno dei personaggi più indimenticabili dell’intera serie, nella seconda stagione uscita su Netflix il 26 dicembre, è del tutto impossibile non legare i significati insiti nella nuova competizione a somma zero con le elezioni statunitensi del 5 novembre. I partecipanti al gioco della morte possono scegliere di abbandonare la competizione per scelta di maggioranza, ma il livello di disperazione e avidità è tale che tornare nella vita quotidiana risulta essere un destino peggiore che il rischiare di morire trucidati mentre si tenta di risolvere un semplice jeu d’enfant.
Se nella prima stagione della serie la votazione ‘democratica’ stabilisce per volontà esplicita dell’organizzatore dei giochi, finto partecipante, ennesimo meccanismo perverso del gioco, che tutti se debbano tornare a casa prima di tornare a giocarsi il tutto per tutto, dalle proprie disgrazie e sentenze di morte da parte di aguzzini e strozzini vari, nella seconda stagione i giochi continuano subito. Seguiamo con ansia partecipante per partecipante, salire il numero di pro e contro, con lo stesso sgomento e la stessa perplessità del protagonista Gi-Hun. 'Hanno visto cosa succede, moriranno tutti, come possano votare per continuare questo massacro?’ si domanda senza speranza. Gi-Hun è il nostro eroe perché non si arrende alla deludente natura umana, cerca di crederci nonostante tutto che la ragionevolezza e l’umanità possano trionfare sulle più basse pulsioni animali. Eppure, come stavamo davanti agli schermi il 5 novembre senza parole, vedendo gli Stati Uniti scegliere il peggiore presidente possibile invece che una candidata di esperienza e soprattutto non divisiva ma assai moderata, Gi-Hun osserva i partecipanti scegliere il dirupo come un’ordata di lemmings che si lanciano nel vuoto perché lo stanno facendo tutti gli altri e forse dall’altra parte della collina si mangia di più.
John Steinbeck diceva che il problema degli americani stava nel percepirsi come milionari momentaneamente non abbienti piuttosto che per ciò che è in maggioranza sono: poveri, senza istruzione e senza mezzi di miglioramento.
Non esiste una tradizione culturale storica che inquadri il vecchio e semplice povero contadino che sebbene non abbia molto è ricco di saggezza e consigli, il malmenato, ridicolo e anacronistico sogno americano continua ad essere percepito come un’impennata verticale verso la fortuna del capitale, verso l’ammirazione di coloro che hanno accumulato più degli altri, non importa come, non importa il valore di ciò che si fa nè che si crea, conta solo l’ostentazione di una superiorità di patrimonio che sancisce chi è migliore degli altri. Non chi lavora di più o meglio, non chi ha idee più intelligenti, non chi è più preparato o determinato, semplicemente chi riesce a sottrarre la somma maggiore.
Il culto di Elon Musk, tossico emblema di un tardo capitalismo che si sta traducendo in una oligarchia spaventosamente antidemocratica oltre che egoriferita ed eco di passati storici da brividi, riflette il sogno miserabile dei partecipanti di Squid Game, essere meglio, essere di più, essere ‘abbastanza’.
La partecipante 222, giovane ragazza indebitata e incinta all’ottavo mese, chiede al padre del suo bambino, che a sua volta partecipa ai giochi perché youtuber fautore di una criptovaluta che ha portato al fallimento lui e migliaia di altri utenti, il giocatore 333, quanto sia questo ‘abbastanza’. Questo ‘abbastanza’ che serve per abbandonare il gioco insieme, ripartire da zero, pensare alla loro neo famiglia e reinvestire, ricominciare a giocare in borsa, tornare a fare scambi di futures e titoli, ciò che a lui preme molto di più che il resto.
Non c’è risposta a questa domanda, nel gioco del tardo capitalismo non esiste ‘abbastanza’, non c’è una cifra che stabilisca l’avercela fatta, lo scopo è ottenere sempre di più a discapito degli altri.
Ci serviva forse proprio la Hallyu, la rinascita della cultura coreana in fruizione e disponibilità internazionale, per guardare indietro e rivedere noi stessi all’inizio della corsa. Per ricordarci di Ladri di Biciclette servivano i k-drama.
L’occidente sta sempre peggio mentre la Corea o almeno il suo sud sembra sperimentare un momento di sole mai avuto prima. Ci verrebbe voglia di gridargli di fare attenzione, che non è tutto oro quel luccica, che ci siamo cascati anche noi tanto tempo fa e continuiamo a fare capitomboli.
Possiamo solo augurarci che i nostri cugini asiatici riescano a fare una catarsi più approfondita e sincera di quanto non siamo riusciti e non riusciamo a fare noi.
Micol Mei © 2025
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