Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a un cambio drastico nell’ indirizzo della leadership cinese. Siamo passati dalla politica estera prudente e low profile di Deng Xiaoping alla minaccia globale dell’uso della forza economica, energetica e militare. Il quesito è: questo mutamento in termini di gestione della foreign policy ha danneggiato il governo di Pechino oppure no? Come si è formato il fronte di nemici della Cina, coordinati per mettere uno stop alle pretese territoriali cinesi? Prendiamo in rassegna ora gli eventi salienti occorsi nell’anno appena trascorso. Grandi sfide necessitano di grandi mezzi disposti per combatterle. Il Partito Comunista Cinese si è ritrovato sulla difensiva in particolare nella ragione dell’Asia-Pacifico. Nella lotta per la sovranità sul Mar cinese meridionale siamo finiti in un vicolo cieco, con lo stanziamento navale di vascelli cinesi e filippini sull’isolotto Huangyan. Altro nodo cruciale resta la tensione col Vietnam, sempre a proposito delle redini sul Mar cinese del sud. L’India e il Giappone hanno intensificato i rapporti militari con Filippine e Vietnam proprio in contrapposizione con la Cina per quanto riguarda i contenziosi territoriali. Gli Stati Uniti hanno manifestato nel Giugno 2012 la loro decisione di stanziare ben il 60 % della loro forza navale nell’area dell’ Asia-Pacifico, a ulteriore conferma del ‘Pivot to Asia’ annunciato dal presidente statunitense Obama all’inizio del 2012. Così la Cina ha iniziato a persuadersi del fatto che una politica aggressiva potesse essere più efficace e opportuna. A difendere questo punto di vista si espone il teorico militare Yang Yi, dichiarando, alla Xinhua agli inizi del 2012, l’impossibilità di mantenere per la Cina un ‘low profile’, ma ribadendo invece la necessità di una ‘risoluta autodifesa’. Yang Yi ha inoltre aggiunto che “le misure di contrattacco adottate da Pechino dovrebbero essere di breve durata, di poco costo, efficienti e non devono lasciare spazio per ambiguità o altri effetti non graditi”. Il nuovo destino tracciato dall’esecutivo di Pechino ruota proprio attorno a questo perno, la nuova “politica estera degli interessi nazionali fondamentali”. Immaginarie linee di confine, tracciate con la visione geografica cristallina dei luoghi possibili che incarnino gli interessi nazionali vitali per la potenza asiatica. Gli interessi nazionali fondamentali cinesi concernono l’unità cinese e l’integrità territoriale: è fuori discussione che Taiwan e Tibet non restino parte di quell’universo chiamato ‘Cina’. Ma perché è proprio il Mar cinese del sud, tallone d’Achille cinese nella sua riformulazione in politica estera, causa delle tante ‘provocazioni’ anticipate pocanzi? Lo stesso segretario americano Leon Panetta lo ha annunciato in differenti occasioni, Il prossimo conflitto su vasta scala potrebbe scatenarsi in queste acque. La Cina è consapevole della posta in gioco: sovranità territoriale, politica, di leadership, di energia e risorse petrolifere. Si tratta di interessi economico-strategici fondamentali per il governo di Pechino che considera il Mar cinese del Sud un core interest e vuole ottenerne il controllo assoluto, contrapponendosi agli altri attori politici dell’area sud est asiatica. Per la Cina, prima delle ambizioni militari, viene però lo sviluppo economico interno. Ricapitolando: gli obiettivi di Pechino, tali da giustificare una condotta così spericolata da parte del governo cinese, sono il mantenimento di una leadership economico-politica nel mondo e di sovranità sull’area. C’è da domandarsi se la politica aggressiva attuata dalla Cina, contrastando evidentemente le norme internazionali, non sia un deterrente allo scopo primario di ordine economico globale del governo di Pechino. Anche nella contrapposizione diretta tra Giappone e Cina abbiamo visto susseguirsi una serie di schermaglie durante lo scorso anno. Più aggressività militare, assume più significato strategico investire in una politica bellica che faccia recuperare terreno rispetto agli Stati Uniti, humus di sciovinismo nella difesa delle isole Diaoyutai e Senkaku. Ma qual’è il vero oggetto del contendere? Le due piccole isole non brillano certo, eppure potrebbero esserci dei fondamentali giacimenti di gas naturale nelle acqua adiacenti. Il Giappone la scorsa settimana ha esposto un chiaro segno di preoccupazione per la condotta cinese. Il ministro della Difesa giapponese Itsunori Onodera ha sottolineato come la Cina parrebbe aver violato la Carta delle Nazioni Unite, quando le sue navi da guerra hanno bloccato i radar difensivi del controllo-fuoco di una Maritime SelfDefense Force giapponese, distruggendo inoltre un elicottero cinese il mese scorso. Il ministro giapponese ha inoltre incoraggiato la creazione di un numero verde diretto tra Pechino e Tokyo. Secondo le dichiarazioni rilasciate dal ministro in una sessione del Comitato della Camera Bassa, riunitasi per un dibattito sul bilancio pubblico, le azioni compiute dalla Cina potrebbero ritenersi una minaccia della forza armata contro il Giappone, che si riserva il diritto di intervenire, rispondendo colpo su colpo. Infine quali sono le prospettive? Dati alla mano gli ultimi mesi sono stati carichi di provocazioni reciproche e la contesa di quelle acque è diventata il primo obbiettivo per la politica strategico-militare della Cina. Aspetti economico-commerciali si fondono con necessità politiche, rendendo di fatto la questione ingarbugliata ed enigmatica. Ciò che tristemente s’intuisce dagli eventi appena accaduti è che, come ha ribadito Panetta, il rischio dell’esplosione di un conflitto è molto alto.
top of page
bottom of page
Comentarios